Filo conduttore e pretesto del romanzo è la storia del brevissimo amore tra un gondoliere senza nome e Leonie, giovane donna svizzera giunta a Venezia nel 1961 con l'entusiasmo dei vent'anni. L'incontro avviene in un momento di transizione per la ragazza, che una volta ritornata a Lucerna farà il suo ingresso nella vita adulta...
I
Questa storia non sarebbe stata scritta senza un ritardo ferroviario. E forse, evitando queste pagine in cui si indaga la vita degli altri, qualche lettore sarebbe stato risparmiato dal rischio di annoiarsi. Ma i ritardi dei treni impongono sempre al viaggiatore di trovare un modo per ingannare l’attesa e non annoiarsi. Uno di questi, almeno per me, è la lettura, che il più delle volte equivale di fatto a entrare nella vita degli altri. La differenza è che, onnivoro quale sono, non provo alcun tedio nel divorare le pagine di un libro, fedele alla convinzione già espressa da Marguerite Yourcenar in Memorie di Adriano secondo cui è difficile comprendere come si possa essere sazi di un essere umano. Questa consapevolezza mi ha sempre predisposto a una curiosità già di per sé congenita — non morbosa ma stuzzicante — per le vicende amare e gioconde di chi generosamente mi ha aperto il cuore, o di chi ha avuto un minimo di approccio verbale con me, anche se casuale e temporaneo.
Alla fine di un pomeriggio d’estate del 1989, aspettando il rapido delle 19,25 su una panchina davanti alla Stazione ferroviaria di Santa Lucia, un uomo in età prese posto accanto a me, chiedendomi con garbo se poteva farlo. Sui sessanta-sessantacinque anni, asciutto e slanciato, vestiva elegantemente in giacca e cravatta e si esprimeva in modo forbito, con l’impiego di termini così ricercati da farlo assomigliare a un docente di Ca’ Foscari. Mi limitai ad ascoltare.
Non posi domande, non lo interruppi mai. E fu una scelta giudiziosa, dettata dal rispetto, perché una malinconia incontenibile pareva dominarlo, manifesta e radicata nel profondo del suo essere. Da come parlava, sembrava che la sua disperazione stesse nell’aver cambiato, molti anni prima, uno stile di vita in favore di un altro, e che questo gli pesasse ancora, nonostante fosse in pensione. Quel mutamento era stato per lui qualcosa di imposto, barattato con una visione del mondo più semplice e abbordabile.
«Il mondo è ciò che si vede» sentenziò dopo aver fissato il libro che tenevo in mano, per poi lanciare subito lo sguardo oltre il Canal Grande, in direzione delle Fondamenta di San Simeone Piccolo. Per contro si intuiva che il suo linguaggio era suggerito da una grande levità interiore, come quella che di solito nasce al ricordo di un amore forte e intramontabile. Parlava senza sosta, come se mi avesse eletto a confessore silenzioso, per consegnarmi una dichiarazione intima che gli stava a cuore, per rivelare inspiegabilmente proprio a me, uno sconosciuto, ciò che ad altri non avrebbe potuto raccontare. Misteri dell’esistenza, pensai. Perché mai quel profluvio di memorie personali scaricate su di me da un uomo maturo che viveva in una delle città più visitate del mondo? Non capivo, ma ingordo com’ero di storie individuali, che sempre destano in me grande interesse, accoglievo come una benedizione l’affiorare del passato di un altro che niente aveva in comune con il mio presente, insulso e ordinario. Guardando nel vuoto in una sorta di straniamento senile, ma con la stessa lucidità di chi non ha ancora varcato la soglia anagrafica della vecchiaia, iniziò il suo racconto, che era stato abilmente preceduto da un preambolo per catturare la mia attenzione. Quasi un abboccamento: il mondo è ciò che si vede...
«…Vede, caro signore, per uno scherzo del destino, o per altri motivi che non mi è dato di scoprire, trent’anni fa ho cambiato mestiere. Prima facevo il gondoliere, monotono lavoro di braccia, di gola e di cortesia verso chi insisteva per farsi ritrarre con la nostra paglietta. Esaudivo ogni desiderio dei turisti pur di vederli felici. Gli innamorati mi chiedevano di insegnare loro come si porta la gondola e di mettermi in posa per una foto-ricordo. E quando rientravo allo squero, con la tuga vuota ma sempre linda, mi toglievo a malincuore maglia e cappello. Poi all’Azienda del Turismo si misero in testa, agli inizi degli anni Sessanta, che potevo diventare una guida, e accompagnare orde sbigottite di forestieri per calli e sestieri. Mi opposi, sbraitai, ma inutilmente: dovevo per forza fare la guida. Mi diedero un programma che per ribellione pensai di variare. Tanto in San Marco si arriva comunque. E poi era così esaltante percorrere a piedi quei tratti che gonfiano le caviglie. La gente è più mite quando è stremata. A fare i conti con il corpo indolenzito e fradicio di sudore, ci si sente come nudi, e in quello stato anche oggi si capisce quanto sia grande Venezia rispetto alla vanagloria di questi nuovi dominatori in shorts. Il mio itinerario era completo. Si snodava attraverso tutta la città, isole escluse, toccando i monumenti più importanti. L’avevo preparato con diligenza sulla pianta, perché io le cose prima le avevo sempre viste dalla gondola e sempre di fretta. Niente visite particolari: solo esterni, vie, campi e campielli. Come punto di partenza scelsi gli Scalzi, motivando in Agenzia la mia proposta sul piano pratico. Chi proviene dalla Ferrovia e non è mai stato a Venezia, trova utile e pratico confluire agli Scalzi. E così l’idea passò senza difficoltà, perché anch’io, vecchio gondoliere, potevo ancora dettare le mie condizioni. In Agenzia avrebbero dovuto capire che noi non eravamo interamente votati all’obbedienza: in fondo vestivamo una divisa. Nel mio apprendistato fui accompagnato per i primi tempi da chi era più esperto. Imparai ben presto a controllare la tensione derivante dal timore di sbagliare, e magicamente un giorno non provai più imbarazzo a parlare in pubblico. Con la complicità del brusio e l’effervescenza dei motoscafi, riuscivo sempre a mascherare i miei tentennamenti. Più arduo era rispondere a domande precise che m’arrivano puntuali dai più curiosi. Mi chiedevano date: allora inventavo o arrotondavo alla prima o alla seconda metà del secolo in questione. Non era professionale, avrei potuto applicarmi di più, ma mi arrangiavo così. Avrebbero dovuto darmi più tempo.
Dopo le prime prove, sempre affiancato dai colleghi più scafati, ottenni regolarmente il sospirato patentino, e venne anche il giorno del battesimo del fuoco, quando dovetti affrontare da solo, e senza altro supporto, un’intera comitiva. Iniziai ufficialmente il nuovo lavoro nel luglio del 1962, subito dopo la Festa del Redentore, portandomi dietro una compagnia di Avignone, uomini e donne di mezza età sbarcati da un pullman Gran Turismo. Li ricevetti con il sorriso sulle labbra, simile a una paresi. Avevo imparato a fatica le regole: bisognava mostrarsi disponibili a soddisfare ogni esigenza, ma non a fraternizzare, poiché l’affiatamento avrebbe stimolato nuove richieste nei gruppi. Occorreva stabilire un’autorità, la fermezza contro il lassismo, non essere troppo accondiscendenti, e soprattutto sapersi imporre quando l’attenzione durava troppo. Sulla storia del Ponte degli Scalzi mi ero molto documentato. Loro tendevano l’orecchio, mentre riferivo che ancora nel Cinquecento l’unico raccordo sul Canal Grande era Rialto; gli altri due ponti, l’Accademia e gli Scalzi, furono costruiti tra Otto e Novecento. La Serenissima aveva spiegato il grosso delle sue milizie a Rialto, a tutela di quell’unico giunto perché i nemici non avessero altri accessi dal mare. Il mio francese era scolastico, incerto e lacunoso. Nella pronuncia non rispettavo le “e” aperte o chiuse a seconda degli accenti, come prevedeva il manualetto dell’Agenzia. Ma tutti compresero, anche gli anziani con l’auricolare, che ci stavamo avviando verso Cannaregio, antico quartiere di ladri e malfattori. Su Cannaregio c’era sempre molto da dire, per quel fluttuare parallelo al Canal Grande. Loro mi ascoltavano con attenzione, sdegnandosi appena alle inesattezze degli aggettivi, alla barbarie di certe dieresi. Mi erano simpatici, per questo. Cechov scriveva che l’educazione non consiste nel non versare la salsa sulla tovaglia, ma nel fingere di non accorgersene se qualcuno lo fa. Il tedesco l’avevo racimolato alla meglio in sei mesi di studio, a quattro ore settimanali. Da gondoliere tutti i tedeschi mi capivano, e univo alle frasi più usate la vivacità del gesto. Applaudivano ai miei movimenti sgraziati: mollavo il remo e mi esibivo come un attore che vuole strafare. Da guida dovevo invece dare maggior risalto al lessico, memorizzare ogni paragrafo della guida in diverse lingue, perché dovevo informare senza divertire. E questo mi costava. Lo slargo di Campo San Geremia piacque molto a una francese con i pantaloni fuseaux. Dava di gomito al marito, un uomo apatico e assonnato, e la vista delle sue forme di donna matura, racchiuse dentro i calzoni corti fino alla caviglia, muoveva nei suoi stessi compagni di viaggio una contenuta derisione. Ma per lo stupore che dimostrò in San Geremia, la assolsi in pieno. La sua curiosità mi incantò, e avrei voluto confidarle che nel giugno del Sessantuno avevo conosciuto una giovane donna svizzera di nome Leonie che alloggiava a Casa Calderan, con ingresso all’angolo della piazza. Una modesta Pensione senza bagno ma pulita e decorosa. I massicci restauri ora hanno alterato l’assetto del palazzo, ma all’epoca la sua finestra si apriva sulla chiesa di Santa Lucia e sulla folla vociante in coda verso San Marco.»
L’uomo si interruppe e abbassò lo sguardo a terra, come per concentrarsi prima di una solenne rivelazione. Poco interessato al resto, era perso nei suoi pensieri. E io con lui, follemente curioso di conoscere i risvolti di quella storia, iniziata con il racconto del disagio di un lavoro nuovo per approdare all’annuncio di una vicenda d’amore consumata molti anni prima.
«Se oggi celebro questo anniversario — continuò — è solo perché Leonie è rimasta dentro di me. Soprattutto rimane a corona di un mondo che se n’è andato assieme alla mia ignoranza e alla mia ingenuità, sostituito dal mondo grifagno nel quale oggi vivo da vecchio.»
“E non pensa che quel mondo se ne sia andato insieme alla sua gioventù?” avrei voluto chiedergli senza cinismo, per il puro desiderio di conoscere la sua opinione. L’uomo si accorse della mia curiosità, preavvertendo il senso della domanda che non posi. Evidentemente il mio sguardo lo istigava a darmi una risposta. Che non venne. Mi fissò per un attimo e mostrandosi all’improvviso poco interessato ai miei quesiti inespressi, ritornò a immergere la mente nel passato.
«Il giorno della mia prima guida, la perizia del vecchio gondoliere avrebbe dovuto impormi di costeggiare il Canal Grande. Invece presi per le Fondamenta degli Ormesini, dove per magia, o per follia, trovai ancora l’odore di Leonie e l’eco delle sue risate. Imboccai il Ponte dell’Asèo, alla Parrocchia di Sant’Alvise. Qui nessun accompagnatore avrebbe mai pensato di avventurarsi se non dal Canale, perché di posti simili Venezia è disseminata. Ma io accontentavo il mio trascinante bisogno di lei, portandomi dietro un gregge che era insensibile ai buchi più remoti della città. E così, sfruttando la meraviglia di tutti, mi installai sul piccolo ponte per evocare dentro di me le resistenze poco convinte di Leonie, che al mio tentativo di abbracciarla su quella passatoia si era sottratta debolmente e senza convinzione... “Cosa vuole dire Osèo?” mi assalì il più anziano di tutti. Era un omone alto, un po’ allampanato, come se lo avessero appena fotografato al magnesio. Non potevo spiegargli che in periodo di Carnevale qualche burlone si era preso la briga di sostituire la A di Aseo con una O, così da avere la piccante variazione in Ponte dell’Osèo. Feci cadere il discorso sulla struttura tipicamente veneziana della volta e della campata. Poi trascinai la comitiva ancora verso Cannaregio ed entrai in Campo San Bartolomeo, a ridosso di Rialto. Avrei dovuto dirigermi sul ponte dei loro sogni. Molti avevano nel cuore l’immagine di Rialto perché è la più diffusa all’estero; ma proseguii implacabile verso San Marco, perché in quel punto, nel fatidico giugno del Sessantuno, avevo intrecciato le mani di Leonie, senza mai più dividermi da lei fino all’ala napoleonica. La mia latitanza, questo esserci e non esserci, per la verità disorientava il gruppo. Uno di loro additava le scalinate, sentendosi punito dal mio passo veloce. Ma le vie asfittiche che convergevano verso la Basilica preannunciavano per tutti una ricompensa. Tra non molto lo scorcio verso il mare si sarebbe aperto sul fianco di San Marco, sotto la Torre dell’Orologio. Così li elettrizzai puntando sull’Accademia e sul ponte impalcato di legno scuro. Evitando per il momento la Basilica mi sentii anche meglio: c’era bisogno di aria, di inalare a pieni polmoni il profumo del mare, che si rendeva dolciastro accanto alla Colonna del Leone. La colonna di Leonie, avrei voluto rinominarla per un solo giorno. Qui si gode, forse meglio che altrove, dell’estensione di Venezia. Rimasi sul vago, sfoggiando solo le certezze che parevano incontestabili. Mi produssi in un abile paragone: raccontai che anche Gustav von Aschenbach in Morte a Venezia era arrivato dal mare. Avevo visto le riprese di Visconti sul Canale e per analogia, quando ero gondoliere, usavo un espediente per impressionare chi mi prenotava un giro in gondola. Specialmente agli stranieri riservavo lo spettacolo per la fine. Puntavo il ferro di prua diritto verso il campanile e l’avvicinarsi lento a San Marco, con il lieve molleggio dello scafo, avviava sempre romantiche affettazioni: un bacio fra due amanti, languori, tristezze... Insomma, il buon esito c’era, e quando scendevano erano così vulnerabili che osavo chiedere di più: allora alzavo il prezzo per i miei servigi e avidamente pretendevo anche la mancia. Quando portai il gruppo in Campo San Maurizio, tutti erano stremati. Ma godettero della sensazione che regala il piccolo Campiello drio la chiesa. Uno spazio esiguo, ristretto, che non può accogliere tutti. I francesi ignoravano la leggerezza che mi davano quelle pietre sull’acqua mefitica del canale. La loro era una scialba volontà di espugnare, di carpire l'arte e licenziare ogni traccia del presente. Per questo toccavano il ferro brunito e le borchie dei pozzi. Bellamente incavato nella parete della chiesa di San Trovaso, prima delle Zattere, c'è ancora uno strano animale di marmo. La corrosione della pietra, il muso sfigurato da fori e piccole crepe, ne fanno un mostro bizzarro, inoffensivo e dall’aspetto domestico. La mano della donna in shorts e scarpe di vimpelle, scivolò come quella di Leonie sulla testa irregolare della Bestia, solcando la bocca e i denti sporgenti, quasi ad avvertirne la bava. Sul Ponte dell’Accademia si faticava non poco a guadagnare lo scorrimano. L’unica francese di colore, nera come la mia anima, si affidò alla magia dell’altezza e si fermò estasiata davanti alla Salute. La osservai nel profilo, incollata al legno tondeggiante, gli occhi drogati... Stessi effetti dell’estraniazione di Leonie alla vista, da quel punto, di cupole e campanili, sfondo ideale per entrambi di un crescente desiderio. Inconciliabile con l’evanescenza della città sospesa, il desiderio mi aveva indotto a un subdolo bacio, a cui Leonie aveva risposto con uguale slancio e calore.
L’idea che spira alle Zattere è quella di una totale indipendenza acquisita a scapito di grandi cessioni. Anche oggi, da vecchio, amo bivaccare sulle pedane della Giudecca. In quel giorno consacrato al mio battesimo, non mi fu possibile: attraversando gli Incurabili in direzione della Dogana, avvertii dietro di me i primi e decisi lamenti. Mi arrivarono in un francese stretto, credo in argôt, dal fondo della fila. Qualcuno era stanco della mia aria troppo pensosa. Maturò nel gruppo una bonaria fase oppositiva. Ne erano sintomi i cenni del capo, le torsioni delle labbra e una pacata disobbedienza. Alle Zattere ai Saloni una coppia si sedette ostinata sui gradini a mugugnare, senza sapere che quello era il nostro ponte. Su quel ponte io e Leonie ci eravamo baciati in lunghe morse di passione, della Giudecca rapprendeva ben presto il nostro sudore. Il ponte ha un nome capzioso: Ponte dell’Umiltà. Tra lo sfinimento dei francesi ormai allo sbando, conquistai la Punta della Dogana. C’era chi sognava, o si rosolava al sole, o dipingeva, o scriveva sui gradini della Salute. Altri facevano pendere le gambe quasi sull’acqua, seduti sul molo estremo. Da questo lembo di cemento partivano i vaporetti come partiva il pensiero, nello stesso identico modo. Di fronte a noi una convulsa babele di razze stava vagando in San Marco. E via ancora per Dorsoduro, verso il Museo Guggenheim, dentro al cortiletto con le gondole appena verniciate, dove dimenticai il mio seguito piagnucoloso e avanzai a passo spedito ormai perso nel ricordo di Leonie. Solo in Santo Stefano, per il soffio maligno dell’uomo senza udito, mi accorsi ancora di loro. Esausto, si tolse il basco e si asciugò la testa calva. A rispettosa distanza un altro si accosciò, congestionato dal sole. Il punto preferito di Leonie per prendere il sole era il basamento davanti alla statua del Tommaseo. Il sole lo cercava come se potesse stivare il calore per portarne un bagliore nel suo Nord. Le dava un evidente beneficio, tingendole la fronte e illuminando quegli occhi di una forza giocosa che sapeva farmi ruscellare intorno.
Giù da Rialto si aprì davanti al gruppo il mercato del pesce. Dietro di me risuonavano i belati dei francesi che arrancavano sui marmi.
Alcuni si dispersero nelle rampe laterali, con l’intento di riposare e di sdraiarsi sulla pietra lisciata dai turisti di tutte le epoche. Non avevano vigore interno, non come me, che a ogni minuto lo andavo a stanare dal fondo della coscienza, luogo equivoco e cavernoso, ma pieno di tentazioni quanto lo era Rialto per loro. Inseguivo il ricordo del lampione, sotto il bronzo di Laurenti, mentre la stringevo in Campo della Pescaria, facendo aderire i nostri corpi. Leonie era serena, sazia e appena affaticata. Il giorno del battesimo, invece, il mercato era spoglio. Un campanile suonò le dodici: solo San Marco a quell’ora indebita continuava a spandere melodie. Ma ecco la mia ultima tappa: il campiello di Simon Grando, ampio fino al Canale. Miagolio di fisarmonica, e i gondolieri - cari gondolieri! - si davano la voce facendo voltare i turisti sui ponti. Spesso, quando traghettavamo gli stranieri, urlavamo irripetibili sconcerie, storpiando lingue e dialetti per burlarci degli ospiti più allegri. Un giapponese sulla gondola cantava O sole mio. I francesi, che sapevano di aver ormai concluso il loro snervante percorso, ridevano sguaiati per la situazione paradossale che solo questa città può generare. Li ricondussi agli Scalzi e arrivò per tutti noi il momento dei saluti. Qualcuno mi allungò una banconota che feci sparire con noncuranza nel taschino della camicia. Mi pagavano per averli sfiniti, ma ne erano felici e questo mi toglieva ogni rimorso. Avevano le mani ingrossate per il caldo e cinguettavano au revoir. Quello con il basco fu l’ultimo ad andarsene. Rimase indietro, l’auricolare gli ronzava in testa. Fu lui che raccattò sull’asfalto i dépliants ormai logori di Venezia.»
L’uomo si incupì, come quando si è consci di aver terminato un lungo racconto e si offre a chi ci sta di fronte uno spunto di riflessione. Fu allora che ritenni giusto, o quanto meno lecito, intervenire per dimostrare un autentico interesse per il suo racconto.
«Il battesimo del fuoco, l’amore, la nostalgia imperiosa... È una bellissima storia, la sua. Veritiera e pienamente vissuta... Si capisce da come la racconta.»
«Come la racconto?» chiese guardandomi diritto negli occhi.
«Con passione...» l’uomo sorrise.
«Passione... Che cos’è per lei la passione?» mi domandò con aria grave.
Fui colto alla sprovvista. Provai ad articolare un pensiero, e una risposta che tardava a venire.
«La passione è un momento della vita affettiva... – farfugliai – …caratterizzato da uno stato di violenta e persistente emozione...» pontificai con fare vagamente accademico.
L’uomo si mise in ascolto, pensando che avessi altro da dire sulla passione. Poi mi fissò di nuovo, sorpreso dalla mia risposta troppo retorica, ma chiaramente per lui efficace.
«Come è vero! Persistente e violenta...» e vagò con la mente sulla riva di fronte. Poi, senza preavviso, si alzò in piedi, facendo leva sulle ginocchia con le braccia. Si aggiustò la cravatta e con le punte delle dita colpì la pochette sulla giacca di lino, assestandola verso l’alto.
«Cosa legge?»mi domandò squadrandomi dall’alto della sua posizione.
Brandii il libro, avvicinandolo perché potesse leggerne il titolo. Si protese stringendo gli occhi per mettere a fuoco le scritte sulla copertina.
«Storia della follia nell’età classica…» pronunciò scorrendo il titolo.
«… di Michel Foucault...» aggiunsi.
L’uomo sorrise di nuovo, come intenerito dalla mia inutile precisazione. Ebbi il timore che potesse pormi una nuova domanda, del tipo Cos’è per lei la follia? Non era questo che mi aveva chiesto poco prima a proposito della passione? Invece si limitò a porgermi la mano.
«Mi ha fatto piacere parlare con lei» disse con l’intenzione di congedarsi. «Scusi se mi sono dilungato su dei ricordi ormai lontani... Consideri queste confidenze alla stregua di certe trame frivole dei giornali femminili. Ecco il titolo accattivante per una rubrica: Raccontate un amore della vostra gioventù...»
«La sua non è affatto una trama frivola» protestai con rispetto. «Meriterebbe di essere narrata...»
L’uomo mi guardò conservando ancora il sorriso sulle labbra. Poi alzò la mano aperta in segno di saluto, e prima di voltarmi le spalle esclamò:
«Faccia buon uso della libertà.»
Furono le sue ultime parole. Lo seguii con lo sguardo fino a quando non sparì sulla rampa del Ponte degli Scalzi, inghiottito dalla folla dei turisti. In quel breve lasso di tempo, due minuti al massimo, mi interrogai sul significato della sua raccomandazione finale. Poteva voler dire che alla libertà lui era stato costretto a rinunciare, cambiando a malincuore il profilo professionale da gondoliere a guida turistica, ma che avrebbe voluto mantenere la prima condizione, più adatta a una personalità sciolta e svincolata come la sua. Eppure anche come guida turistica si era affrancato dalle regole stabilendo un percorso alternativo, nel ricordo di una donna svizzera, la bella Leonie, con cui aveva intrattenuto una relazione appagante, ancorché breve. Mi interrogai ancora: o non era forse la libertà di perseguire un progetto di vita illuminato dall’amore e dalla passione, quella che raccomandava l’uomo carico di mistero a cui avevo prestato l’orecchio e il mio tempo? In sintesi: visto che amore e passione in una vincente giornata di trent’anni prima si erano manifestati in maniera prepotente fra lui e la bella Leonie, che bisogno avevano all’epoca due giovani come loro di rivendicare un’aleatoria libertà individuale rinunciando a una vita insieme, da condurre a Venezia o in qualche città della Svizzera?
Perso nei miei interrogativi, salii sul treno poco prima che partisse, avvisando il controllore che mi era mancato il tempo materiale per obliterare il biglietto. Lui vi appose una sigla e con la severità del diligente servitore delle Ferrovie mi sollecitò ad avanzare verso il centro del vagone. Trovai posto nell’ultima fila, accanto al finestrino. Levai dalla borsa il libro di Foucault e ripresi la lettura che avevo interrotto. Le pagine si susseguivano l’una dopo l’altra fornendomi in quel momento scarsi spunti di riflessione, finché non terminai la parte seconda e iniziai la terza. Il titolo del capitolo su cui la mia mente stranita si fermò riuscì a scuotermi: Del buon uso della libertà. Sgranai gli occhi. L’uomo elegante di cui avevo appena ascoltato la storia personale, gondoliere o guida che fosse stato in passato, mi aveva salutato esortandomi a fare un buon uso della libertà, dopo avermi chiesto quale libro leggessi. L’uomo conosceva il libro, e lo conosceva così bene da poterne parafrasare i titoli dei singoli capitoli. Dubitai allora che mi avesse detto il vero sulle sue esperienze di lavoro, e che in realtà fosse un affabulatore colto e di grande dottrina. L’idea che mi feci fu quella di un uomo incapace di letteraturizzare la sua esistenza perché angosciato dalla vecchiaia in arrivo, o dalla mancanza di attitudine per la scrittura; e che offrisse la sua storia d’amore, importante ma durata un giorno, a chiunque fosse in grado di recepirne la portata e di trasporla in pagine degne di essere lette. Fu nell’esatto momento in cui riposi il libro di Foucault nella borsa, che decisi di esaudire il supposto desiderio di quell’uomo misterioso. E di occuparmi ancora una volta della vita di altri, deviando dalla mia. Prerogativa di chi scrive e di chi aspira a fare della propria libertà un uso conveniente.